Eccomi di nuovo al mio rituale appuntamento col grande schermo, proprio in occasione dell'ultimo lavoro di Pedro Almodovar, La Pelle che Abito.
Rido pensando alla mia povera amica che all'entrata nel cinema, commentando la locandina, mi ha detto preoccupata:-non sarà mica un altro spettacolo raccapricciante come quel Face Off che mi hai fatto vedere?"; ed io, ancora più ingenuamente di lei, ho riso del presunto fraintendimento, spiegandole con saccenza che "la pelle" si riferiva sicuramente a chi sa quale allusione o metafora... povera illusa! E' esattamente alla pelle umana che il titolo fa riferimento, e l'accostamento ai trapianti facciali del film di Jon Woo non poteva essere più azzeccata.
Mi sono infatti trovata davanti ad una pellicola dal contenuto sicuramente molto forte, che non risparmia scene assai crude e violente, tanto da portarmi a dichiarare di non aver mai visto niente di simile che non fosse un film horror.
Racconta infatti la storia di un chirurgo plastico, Robert Ledgard, impersonato dall'affascinante Antonio Banderas, che realizza un surrogato della pelle umana, più resistente e dall'aspetto incantevole, e la fa "indossare" ad una splendida e misteriosa ragazza, che egli tiene prigioniera nella sua casa-laboratorio (non vi rivelerò la sua identità per non rovinare la visione del film). Molti potrebbero ritenere il regista un pervertito per l'intrico e la scabrosità della trama, dato che non c'è tema scottante (dal cambio di sesso all'uso di stupefacenti, dall'omicidio allo stupro) che qui non sia toccato; io tuttavia preferirei soffermarmi piuttosto sulla poesia del tema scelto da Almodovar e su certe immagini che ne sono l'emblema.
Concentriamoci allora sulla pelle e sul significato, riflettiamo sulla molteplicità di valenze che assume in questo film:
- essa è in primo luogo un elemento di sensualità, nel suo ricoprire le morbdie curve della bellissima paziente (spiata dal dottore attraverso telecamere nascoste),
- è, in quanto elemento "coprente", una maschera del nostro vero io, e questo elemento lo si coglie nel tema del carnevale di Madrid, quando fa la sua apparizione lo sregolato Zeca, figlio della domestica, che si traveste da tigre per non essere riconosciuto dalla polizia
- e sempre a proposito di questo personaggio la pelle diventa segno di riconoscimento inequivocabile, legame ancestrale tra madre e figlio, poiché quest'ultimo, per farsi riconoscere dalla donna, le mostra la singolare voglia sul fondoschiena che immediatamente risveglia in lei l'amore materno e la porta ad accogliere il figlio a braccia aperte.
- Non meno interessante il profilo scientifico della pelle, con tutto l'aspetto degli esperimenti di laboratorio (provette, siringhe, ricerche) condotti dal Dott.Ledgard e dai suoi colleghi, con riferimento all'utilizzo del DNA suino al fine di realizzare in coltura una pelle dalle prestazioni superiori.
- La lezione di medicina ricostruttiva, tenuta da Robert all'inizio del film, ci ricorda infine l'importanza del proprio volto (dunque anche della pelle) al fine di definire la propria identità, il proprio io sociale, pertanto, egli afferma, la vittima di un incidente non può sentirsi veramente guarito finquando non gli sia restituita la sua faccia.
Conclusione? Film da vedere, a meno che non facciate parte della schiera di persone che vanno al cinema per passare un piacevole e spensierato paio d'ora, e poi con tutte le schifezze che ci sono in giro (segno evidente di crisi artistica della cinematografia) non è il caso di mettersi a fare gli schizzinosi quando esce l'ultimo lavoro di un regista discusso, ma pur sempre creativo e originale come Almodòvar!